ALL WOMEN MAGAZINE ...è tornata!

“Pizza Mussolini” di Marilena Umuhoza Delli

Marilena Umuhoza Delli torna a parlarci di amore, razzismo e affetti familiari attraverso l’attesissimo romanzo “Pizza Mussolini” (Red Star Press), pubblicato il 21 marzo, nella giornata mondiale per l’eliminazione della discriminazione razziale. 

Marilena, che per Vanity Fair scrive articoli sull’inclusione e per Radio Radicale cura l’unico spazio radiofonico nazionale dedicato alle eccellenze afrodiscendenti, ci consegna in questo libro la prima saga di una famiglia afrodiscendente italiana. 

Si tratta del prequel/sequel di “Negretta, baci razzisti” e racchiude tre romanzi in uno: la storia di Marilena (ambientata a Bergamo), quella di Luna (in Malawi) e quella delle lettere, tantissime, che costellano il libro e sono tutte indirizzate alla stessa persona. 

In questo suo ultimo lavoro, l’Autrice affronta temi caldi come la xenofobia, l’abilismo, l’omofobia e il colonialismo. Una storia narrata in sette lingue che riporta l’attenzione sulle donne Afrodiscendenti in Italia e in Africa, facendoci sognare, sorridere e sorprendere, capitolo dopo capitolo.

Abbiamo incontrato l’Autrice, che in questo momento è in tournée in tutta Italia col libro.

 

Marilena, partiamo dal titolo, “Pizza Mussolini”. Come è nato?

 

“Pizza Mussolini” è un titolo che si ispira a un capitolo del libro, e che vede per protagonista Luna. È nato dopo che io stessa mi sono trovata a mangiare una pizza con quel nome, in un ristorante del Botswana. Facendo ricerche ho poi scoperto che pizze dedicate al duce esistono anche in Italia. La “Pizza Dux” è servita in un ristorante di Val di Susa (Piemonte) che esibisce memorabilia di Mussolini con nostalgico orgoglio. A Martina Franca (Puglia) c’è una “Pizza Mussolini” vera e propria. E di questi tempi, non mi stupirei se ce ne fossero anche di più. 

 

Questo romanzo è il primo esempio in letteratura di una saga con protagonista una famiglia Afrodiscendente italiana. Cosa vuol dire creare qualcosa per la prima volta e come è nata questa storia?

 

Quando scrissi “Negretta, baci razzisti” non avrei mai immaginato di creare la prima saga di una famiglia Afrodiscendente italiana. Ma l’interesse dei mass media e dei miei lettori mi hanno incoraggiata a continuare. 

La storia della mia famiglia è molto complessa: mio padre era un ex missionario bergamasco che per amore lasciò il talare, e mia madre era un’ex direttrice di collège sopravvissuta a tre genocidi e costretta a passare dal razzismo del suo paese, il Rwanda, a quello di suo marito. 

Ricostruire questa storia non è stato semplice perché la memoria è come uno specchio in frantumi, fatta di pezzi impossibili da incollare cronologicamente. 

In “Pizza Mussolini” mi sono voluta concentrare sul rapporto tra Marilena e la sua alter ego, Luna. Due donne che vivono a 11.000 km di distanza e legate da un segreto da disseppellire. La storia di entrambe viene raccontata in modo da seguirne gli sviluppi in contemporanea, quando hanno esattamente la stessa età, ma in realtà tra le due corrono quasi 10 anni di differenza. 

Sono orgogliosa di aver dato vita a quella che spero sia la prima di tante altre saghe familiari con protagonisti Afrodiscendenti. Narrare la storia di una famiglia diasporica nera italiana mi ha permesso di dare visibilità a una comunità che è solitamente invisibilizzata. Narrare mi ha permesso di decostruire quegli stereotipi negativi nei confronti delle persone nere. Non c’è mezzo più potente della narrazione per creare empatia e inclusione. Io l’ho fatto avvicinando i miei lettori alle vicende intime di una famiglia nera italiana, coinvolgendoli nell’anima e nel cuore.

 

Le protagoniste sono due bambine “meticce” che crescono e diventano donne. In che modo le loro storie si intrecciano?

 

Marilena e Luna hanno in comune il fatto di avere un genitore bianco e uno nero, entrambe sono “mixed” e come tali sperimentano le sfide del vivere a cavallo tra due culture. 

L’identità di Marilena viene messa in discussione fin dalla nascita, quando il personale dell’ospedale definisce lei e sua madre con la N word (per non parlare dell’impossibilità di registrare il nome rwandese, scelto con amore dalla madre, all’anagrafe). Quando non sono le persone, sono i muri con le loro scritte “Immigrati fuori” o “Affondate i barconi” a ricordarle che lei e la sua famiglia sono indesiderate. Marilena vive in due Italie, che è poi il titolo di uno dei capitoli del libro. Col padre bianco, tutte le porte si aprono, le persone le sorridono e la comunità la accoglie come una figlia. Con la madre, la gente diventa ostile, gli impiegati pubblici le trattano come cittadine di serie B e la polizia chiede loro i documenti facendole sentire straniere.

E poi ci sono gli uomini che la riducono a una prostituta per il colore della sua pelle. Marilena vuole scomparire e comincia ad avere problemi di peso, indossa abiti scuri di tre taglie più grandi, fa autolesionismo.

A 11.000 km di distanza Luna sperimenta la stessa alienazione in un villaggio Yao del Malawi. È chiamata muzungu (bianca) e perciò ritenuta privilegiata perché la pelle più chiara, che la fa sembrare come gli europei, le offre più opportunità. Ed è chiamata sprezzantemente mfiti (strega) perché quel colore difficile da classificare viene considerato portatore di sventura. Per questo viene allontanata insieme alla madre nella “capanna delle streghe”, alienata da tutto e tutti.

Ci vorrà molto tempo prima che Luna e Marilena imparino ad abbracciare la propria identità, valorizzando le proprie radici africane. Solo quando riusciranno a ricomporre i pezzi della loro storia familiare, cominceranno ad amare se stesse e ad accettarsi appieno.

 

In questo romanzo affronti molte tematiche: razzismo, sessismo, classismo, abilismo, omofobia, sinofobia, colonialismo. Vuoi parlarcene?

 

La tematica del razzismo torna in “Pizza Mussolini” con forza. Come in “Negretta”, ogni capitolo racchiude almeno una microaggressione, cioè una forma narcotica del pregiudizio che si esprime attraverso battute in apparenza innocue, ma che in realtà vogliono stigmatizzare e escludere un individuo. 

Con Marilena queste battute sono all’ordine del giorno, in un paese che la considera troppo nera per essere italiana. Sua madre, inoltre, deve affrontare le sfide dell’essere una donna nera immigrata disabile, e per questo deve subire umiliazioni e sfruttamento di ogni tipo sul posto di lavoro. La famiglia di Marilena è l’unica famiglia nera in una città, Bergamo, che rappresenta l’epicentro della Lega Nord. Una famiglia che è povera ma che affronta a testa alta le difficoltà che la vita porta con sé.

La cerchia di amicizie di Marilena inoltre si allarga e vediamo spuntare un nuovo personaggio, Giulia, italiana sinodiscendente. Attraverso la sua storia si tocca il delicato tema della sinofobia in Italia.

Anche Luna, come Marilena, viene attaccata per via del colore della pelle: nel suo caso, però, è considerata troppo bianca per essere accettata come malawiana. Luna sfida la misoginia del suo paese, in particolare quelle tradizioni secolari in cui le giovani donne malawiane vengono abusate sessualmente. 

Il tema dell’omofobia emerge attraverso la storia di Alfred, migliore amico di Luna, condannato a 14 anni in prigione perché l’omosessualità è ancora oggi un reato in Malawi. 

Il colonialismo invece, che in “Negretta” faceva riferimento agli ex coloni belgi in Rwanda e agli ex coloni inglesi in Malawi, qui viene ripreso in chiave nuova. È il nuovo colonialismo delle multinazionali occidentali che invadono il continente sfruttandone le risorse naturali e il lavoro minorile. E poi c’è il colonialismo spirituale delle missioni, di cui viene svelato un lato oscuro e tabù.

 

Marilena, oltre a essere autrice tu sei anche giornalista, produttrice musicale, fotografa e educatrice. In che modo porti avanti questi lavori e cosa hanno in comune?

 

Tutto è iniziato nel 2009, quando andai per la prima volta in Rwanda a girare un documentario sul ritorno di mia madre nella sua terra dopo 30 anni di lontananza. Con mio marito Ian Brennan ho lavorato al primo album in kinyerwanda prodotto da un’etichetta internazionale, Kigali Y’izahabu, del trio folkloristico The Good Ones. Da allora abbiamo prodotto più di 40 dischi, di cui uno è stato premiato ai Grammy nella categoria World (Tassili, 2012) e un altro è stato nominato nel 2016 (Zomba Prison Project). Ciò che cerchiamo di fare è fornire un palcoscenico a voci musicalmente sottorapresentate nel mondo. 

Cerco di fare la stessa cosa con la scrittura, per restituire visibilità alla comunità afrodiscendente di questo paese. Nei miei libri le protagoniste sono donne nere. Nella rubrica che curo su Radio Radicale le mie interviste sono indirizzate alle eccellenze Afrodiscendenti. Su Vanity Fair racconto storie di inclusione e valorizzazione della diversità. 

 

Vuoi parlarci dell’Academy dell’Antirazzismo?

 

L’Academy è stata creata nel 2021 da me e Sambu Buffa per promuovere l’antirazzismo a scuola, nell’ambiente di lavoro e in famiglia. Lo facciamo attraverso corsi online che fanno leva sul dialogo, su filmati, su slide, letture e lavori di gruppo stimolanti. Alla fine, ogni partecipante riceve un attestato e un toolkit prezioso. Da quest’anno stiamo portando l’Academy on the road, con tappe in presenza in tutta Italia. È un lavoro che mi gratifica e arricchisce molto, uno studio costante che mi sta avvicinando a persone straordinarie.

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