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Differenza di genere nel diventare genitori: il congedo obbligatorio

Al giorno d’oggi spesso si sente parlare di “gender gap”, espressione che si riferisce al divario esistente tra uomo e donna in ambito sociale e professionale; le attiviste, e non solo, mettono in luce quotidianamente questa problematica, chiedendo una parità di genere non solo formale, bensì anche sostanziale.

I motivi di questa triste realtà, purtroppo ancora ben tangibile, sono molteplici; uno dei principali consta sicuramente del fatto che la donna, a livello storico, è sempre stata relegata quasi unicamente al ruolo di madre. Senz’ombra di dubbio sono stati fatti notevoli passi in avanti rispetto al passato, ma, ad oggi, il pensiero prevalente rimane che la normalità in una famiglia sia che la donna rinunci al lavoro, o comunque penalizzi la sua carriera, in quanto madre, mentre l’uomo sia legittimato, senza critiche e sensi di colpa, a dedicarsi alla sua professione.

Dunque, ancor prima di interrogarsi ed analizzare la tematica in ambito occupazionale è bene chiedersi se esistano pari diritti e doveri proprio nella genitorialità, dimensione, inevitabilmente, strettamente legata a quella professionale.

Esaminiamo la questione dal punto di vista legislativo, a partire proprio dal momento della gravidanza e della nascita della prole. Il decreto legislativo n. 151 del 2001, modificato recentemente, disciplina i congedi, i riposi, i permessi e la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori connessi alla maternità e paternità di figli naturali, adottivi e in affidamento, nonché il sostegno economico alla genitorialità (art.1).

Viene disciplinato in questo testo il congedo di maternità, per cui si intende l’astensione obbligatoria dal lavoro della donna (art. 2), per un periodo complessivo di cinque mesi da distribuirsi prima del parto e in seguito ad esso.

È, infatti, vietato adibire al lavoro le donne durante i due mesi precedenti la data presunta del parto e inoltre, ove quest’ultimo avvenga oltre tale giorno, per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva. In aggiunta, il divieto riguarda i tre mesi dopo la nascita del bambino ed, infine, i giorni non goduti prima del parto, qualora quest’ultimo avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta. Tali giorni si aggiungono al periodo di congedo di maternità dopo la nascita del bambino, anche qualora la somma dei periodi ante e post partum superi il limite complessivo di cinque mesi (art. 16).

Ferma restando la durata complessiva del congedo di maternità (di cinque mesi), le lavoratrici hanno però la facoltà di astenersi dal lavoro a partire dal mese precedente, piuttosto che dai due precedenti, la data presunta del parto e nei quattro mesi, piuttosto che i tre, successivi alla nascita del figlio, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale, o altro con esso convenzionato, attesti che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro (art. 20).

Durante tale periodo la lavoratrice ha diritto a percepire un’indennità pari all’80% della sua retribuzione media giornaliera, calcolata sulla base dell’ultimo periodo di paga precedente l’inizio del congedo di maternità.

Tale diritto spetta a molte categorie di lavoratrici, tra cui dipendenti da amministrazioni pubbliche, apprendiste, operaie, impiegate, disoccupate o sospese, lavoratrici agricole, lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari.

Lo stesso decreto legislativo, di cui sopra, disciplina altresì il congedo di paternità, ovverosia l’astensione dal lavoro dell’uomo, il quale ne fruisce in via autonoma dai due mesi precedenti la data presunta del parto ed entro i cinque mesi successivi. Si astiene dal lavoro per un periodo di dieci giorni lavorativi, non frazionabili ad ore, da utilizzare anche in via non continuativa. Nell’ipotesi di parto plurimo, la durata del congedo è aumentata a venti giorni lavorativi ed, in ogni caso, è fruibile anche durante il congedo obbligatorio di maternità. Tali disposizioni si applicano, inoltre, anche al padre adottivo o affidatario (artt. 2 lett. a bis e 27 bis).

Possono fruire di tali misure i padri lavoratori dipendenti, privati e pubblici, mentre sono esclusi i padri lavoratori autonomi. Spetta loro un’indennità pari al 100% della retribuzione giornaliera per il periodo di congedo.

È previsto, inoltre, il cosiddetto congedo di paternità alternativo, per cui si intende l’astensione dal lavoro dell’uomo, in alternativa al congedo di maternità (parziale o totale), nei casi di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché ove il bambino sia stato affidato esclusivamente al padre (artt. 2 lett. b e 28). Infine, in caso di adozione e affidamento di minori, oltre alle fattispecie già citate, tale misura è fruibile dal padre a seguito della rinuncia totale o parziale della madre lavoratrice al congedo a lei spettante.

Logicamente l’indennità cui ha diritto il lavoratore, in queste particolari circostanze, ammonta all’80% della sua retribuzione, esattamente come per la donna.

È, infine, disciplinata dal decreto summenzionato un’ulteriore misura a favore della genitorialità: il congedo parentale (artt. 32 e seguenti). Si tratta di un periodo complessivo di dieci mesi, elevabili a undici, fruibili dai genitori che siano in costanza di lavoro, anche contemporaneamente, entro i primi dodici anni di vita del bambino.

Nel primo mese è dovuta un’indennità pari all’80% della retribuzione giornaliera, in alternativa tra i genitori, per la durata massima di un mese, fino al sesto anno di vita del bambino. Successivamente l’indennità si abbassa al 30%, inoltre quest’ultima è ancora dovuta nel periodo successivo ai nove mesi solo a particolari condizioni di reddito. Sia la madre che il padre non possono usufruire, singolarmente, di questa misura per un periodo superiore a sei mesi.

Conclusa l’analisi del dato normativo, si può affermare che vi sia disparità di genere ancor prima di poter parlare di genitorialità, ancor prima del momento del parto. Il riassunto delle disposizioni riportate si riduce al principale fatto che la donna ha diritto ad astenersi dal lavoro, durante e dopo la gravidanza, per un periodo complessivo di cinque mesi, dei quali solamente dieci giorni vengono trascorsi congiuntamente al padre del bambino. Ciò significa che viene dato per scontato il fatto che sia legittimo, doveroso e voluto dai genitori stessi che sia la madre ad occuparsi prevalentemente del figlio nei suoi primi mesi di vita, tra l’altro non lasciando libertà di scelta ai diretti interessati in questo così delicato e personale momento di vita. Quest’ultimi potrebbero usufruire della misura del congedo parentale per ovviare al problema, ma sicuramente un’indennità pari al 30% della retribuzione non permetterebbe alla maggior parte delle famiglie italiane di sbarcare il lunario.

Fortunatamente la situazione non è la medesima in altri paesi europei. La Spagna ha recentemente stabilito la medesima durata del congedo per entrambi i genitori: sedici settimane spettanti a ciascuno, di cui sei obbligatorie, da trascorrere con il figlio ininterrottamente e a tempo pieno, sia per la madre che per il padre; mentre le altre dieci, fruibili entro un anno dalla nascita, sono frazionabili e rinunciabili. Tale diritto è individuale, dunque non trasferibile all’altro genitore.

Tale paese, lungimirante o realmente al passo con i tempi, ha compreso come sostenere l’uguaglianza di genere in termini di diritti e doveri nella genitorialità comporti anche la riduzione del gender gap, ancora troppo ampio, nel mondo lavorativo.

Auspichiamo a una forma di congedo realmente paritario, della stessa durata e ugualmente retribuito tra uomo e donna; che permetta a quest’ultima di vivere gli ultimi mesi della gravidanza e il periodo del post partum in modo compatibile al suo stato di salute, ma che al tempo stesso rispetti la parità di diritti e doveri, e la libertà di scelta, dei genitori, potendo prevedere anche un periodo trasferibile da un soggetto all’altro.

Non è ipotizzabile una situazione in cui sia la madre a sentire il bisogno di tornare a lavorare ed il padre quello di prendersi maggiormente cura del figlio? Io ritengo di sì, come ovviamente è ipotizzabile il caso opposto.
Una donna non è riducibile unicamente al ruolo di madre, così come un uomo non è riducibile unicamente al ruolo di lavoratore. È purtroppo ancora necessario ripeterlo.

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